In Italia, Meta, X e LinkedIn potrebbero essere costrette a pagare l’IVA sulle registrazioni degli utenti, considerate operazioni imponibili poiché comportano uno scambio economico: l’utente riceve l’accesso a un servizio in cambio dei propri dati personali. Secondo quanto riferito da Reuters, l’Agenzia delle Entrate valuterebbe questo scambio alla stregua di una transazione commerciale.
In questa prospettiva, se interpretiamo correttamente il pensiero del fisco italiano, i dati degli utenti rappresentano la “materia prima” su cui si fonda il modello di business delle piattaforme: un bene intangibile ma con un valore economico concreto. La creazione dell’account non è quindi un semplice atto gratuito, ma una forma di controprestazione che giustificherebbe l’applicazione dell’IVA secondo i criteri europei.
Questa visione non è totalmente nuova, dato che già a fine febbraio l’Italia aveva mosso questi dubbi a Meta e X. Alla lista si è quindi aggiunta LinkedIn.
Le fonti hanno anche riferito le somme che l’Agenzia delle Entrate vorrebbe indietro dalle piattaforme: 887,6 milioni di euro da Meta, 12,5 milioni da X e circa 140 milioni da LinkedIn. Cifre riferite all'intero periodo oggetto di indagine, dal 2015-2016 al 2021-2022, a seconda dei casi; ma l'avviso di accertamento ora notificato riguarda solo gli anni per i quali le richieste sono destinate a scadere, ovvero il 2015 e il 2016.
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Poiché l’IVA, cioè l’imposta sul valore aggiunto, è un’imposta armonizzata a livello europeo, le scelte che farà l’Italia potrebbero avere una ricaduta sulle attività di queste piattaforme in tutta l’UE.
Inoltre, se mai diventasse realtà, questo nuovo concetto fiscale potrebbe essere esteso a tutti quei soggetti commerciali che collegano l'accesso ai servizi gratuiti sui loro siti: un esempio su tutti, l'accettazione dei cookie di profilazione da parte degli utenti.
Secondo le fonti, per la prima volta in casi simili, l’Agenzia delle Entrate ha emesso un avviso di accertamento formale senza raggiungere un accordo transattivo, preludio a un contenzioso fiscale. La questione, infatti, non riguarda solo il pagamento di una cifra, ma l'accettazione di un principio più ampio.
Le società coinvolte hanno 60 giorni per ricorrere, prorogabili di 30 giorni se chiedono una proposta d'accordo. Le opzioni però sono diverse: avviare un processo giudiziario che può essere lungo e incerto; ma ci potrebbe essere anche un eventuale ritiro della richiesta da parte dell’Agenzia, per ragioni tecniche o politiche, come per esempio la difficoltà di applicare questo nuovo concetto fiscale; oppure un’intesa sul pagamento parziale e una nuova valutazione da parte della Commissione Europea.
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