Le batterie agli ioni di litio sono ormai ovunque, dagli smartphone ai veicoli elettrici, ma presentano limiti significativi: devono essere ricaricate spesso, si degradano nel tempo, oltre tutte le questioni ambientali dell'estrazione del litio e lo smaltimento di queste batterie.

Una promettente innovazione in questo campo è rappresentata da una batteria nucleare sicura e di piccole dimensioni, alimentata dal radiocarbonio, che potrebbe teoricamente funzionare per decenni senza necessità di ricarica. 

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Questa tecnologia, presentata dal professor Su-Il In del DGIST (Daegu Gyeongbuk Institute of Science & Technology) al meeting primaverile dell'American Chemical Society (ACS) del 2025, si basa sul principio della cella betavoltaica.

Le batterie nucleari generano energia sfruttando le particelle ad alta energia emesse da materiali radioattivi. In questo caso specifico, viene utilizzato il carbonio-14 (radiocarbonio), un isotopo instabile del carbonio che emette esclusivamente particelle beta, anche conosciute come raggi beta. 

Una caratteristica fondamentale di queste particelle è che possono essere facilmente schermate con un sottile foglio di alluminio, rendendo le batterie betavoltaiche sicure per l'utilizzo. 

Inoltre, il radiocarbonio è un sottoprodotto delle centrali nucleari, risultando quindi relativamente economico e facilmente reperibile. La sua lenta degradazione implica una durata di vita potenzialmente millenaria per una batteria alimentata a radiocarbonio.

Come è stato realizzato il prototipo e primi risultati

Il prototipo sviluppato dai ricercatori è una cella betavoltaica "dye-sensitized", dove il radiocarbonio è presente sia nel catodo sia nell'anodo. 

In una tipica batteria betavoltaica, gli elettroni emessi dal materiale radioattivo colpiscono un semiconduttore, generando elettricità. Per migliorare significativamente l'efficienza di conversione energetica, il team di ricerca ha utilizzato un semiconduttore a base di biossido di titanio. Si tratta di un materiale comune nelle celle solari, sensibilizzato con un colorante a base di rutenio e trattato con acido citrico per rafforzare il legame tra il biossido di titanio e il colorante.

Quando i raggi beta emessi dal radiocarbonio interagiscono con il colorante a base di rutenio trattato, si innesca una cascata di reazioni di trasferimento elettronico, definita “valanga di elettroni”

Questa valanga si propaga attraverso il colorante e il biossido di titanio raccoglie efficacemente gli elettroni generati. La presenza di radiocarbonio sia nell'anodo che nel catodo aumenta la quantità di raggi beta prodotti e riduce la perdita di energia dovuta alla distanza tra le due strutture.

Nei test, questa configurazione ha dimostrato un'efficienza di conversione energetica significativamente superiore (2.86%) rispetto a un design precedente con radiocarbonio solo nel catodo (0.48%)

Nonostante l'entusiasmo per la potenziale longevità, è importante notare che l'attuale design converte solo una piccola frazione del decadimento radioattivo in energia elettrica, risultando in una potenza inferiore rispetto alle tradizionali batterie agli ioni di litio. 

Il prototipo ha una densità di potenza di 20,75 nanowatt per centimetro quadrato per millicurie, insufficiente anche per alimentare dispositivi, come una calcolatrice, per esempio.

Nonostante ciò la potenza generata è sufficiente per applicazioni a bassissimo consumo energetico, come pacemaker che potrebbero durare per tutta la vita del paziente, sensori ambientali remoti per la raccolta dati, tag RFID o microchip.

È interessante notare che il concetto di batterie atomiche non è del tutto nuovo. La prima batteria radioisotopica risale al 1954 e utilizzava stronzio-9013 . 

Negli anni '60, i generatori termoelettrici a radioisotopi (RTG) vennero impiegati nelle missioni spaziali come per esempio nelle sonde Voyager.